diritto alla difesa

Il diritto alla difesa è dato per scontato, ma come funziona veramente?

Sono, in genere, i temi più banali e scontati quelli a cui si crede col massimo della fede, come a una preghiera o alla matematica. Uno di questi è il diritto alla difesa nel processo penale. Sul fatto che la legge non sia poi così uguale per tutti, si fanno molte parole e proteste, magari alla fermata dell’autobus o al tavolino di un bar, ma poi ci si continua a fidare. Ci troviamo invece di fronte a una tra le tante cose assurde ma vere a cui nessuno fa più caso.

Il dizionario della lingua italiana è un buon alleato, risolverebbe da solo molti dubbi, se non fosse così spesso lasciato a prendere polvere.

Diritto: facoltà legittima di fare o non fare qualcosa, di avere o non avere.

Difendere: riparare da offese, pericoli, danni; proteggere, salvaguardare – sostenere una causa, una ragione.

Il diritto è una libera scelta. Chiunque dovrebbe poter decidere se e come avvalersi della propria salvaguardia, se e come far valere le proprie ragioni, quindi, sul diritto alla difesa. Anche, paradossalmente, scegliere di non difendersi; oppure, di difendersi da solo, qualora si ritenga sufficientemente preparato. In realtà, tutti (quasi) sappiamo che nel procedimento penale il diritto alla difesa è in realtà un obbligo: se si viene colpiti dalla magistratura italiana si deve (e non si può) rivolgersi a un avvocato, e pagarselo, altrimenti quest’ultimo viene assegnato d’ufficio. L’avvocato d’ufficio, anche se imposto, va retribuito. E qui sta un bel paradosso, perché ciò che spetta di diritto non può essere obbligatorio: i due concetti si annullano. 

La legge prevede che chi si trova in difficoltà economiche e non può permettersi di pagare un legale venga ammesso al gratuito patrocinio a spese dello Stato (significa che per retribuire l’avvocato vengono usati soldi pubblici). Per ottenerlo, non bisogna avere lavoro, né abitazione, né familiari che possano aiutare. Praticamente essere soli, e al collasso. Se si ha una casa, la si può sempre vendere. Se si percepisce uno stipendio da cameriere, si può usare quello; a comprare da mangiare si penserà dopo. Se, insomma, proprio alla rovina non si è ancora, è necessario ridurcisi, e mandare in malora la proprietà privata, per usufruire del diritto alla difesa.

Gli avvocati disponibili al gratuito patrocinio sono sempre meno, e pochissimi si interessano davvero alla causa. Non è colpa loro. Lo Stato paga in ritardo, sovrattassa, per sostenere le spese di uno studio legale servono clienti abbienti, e a questi ultimi viene data precedenza. Salvo che un professionista possa permettersi di fare del volontariato, ovviamente dedicherà il minimo d’obbligo alla difesa con gratuito patrocinio. Le galere scoppiano di poveracci che potrebbero richiedere misure alternative o presentare ricorsi. Non lo fanno perché non lo sanno, e nessuno li informa. 
Un esempio è dato dal dramma dei pescatori scambiati per scafisti, parcheggiati in carcere a piacimento di un’autorità di cui nulla conoscono.

Non è solo questione di soldi: l’altro enorme problema è il tempo. Un tempo sovrumano, enorme, dilatato dai maneggi della burocrazia, dalle ferie degli addetti ai lavori, dalla carta accumulata sulle scrivanie. Molto conta la professione svolta, le conoscenze di cui si dispone. Se pure si guadagna abbastanza da potercela fare, ci sono da affrontare anni di incertezza, mettendo a rischio il proprio lavoro, le relazioni, la salute. Una persecuzione che può inserirsi a pieno titolo tra i casi di bullismo verticale tra adulti.

La differenza la fanno i casi mediatici, che si tirano addosso l’attenzione del pubblico. Lì il diritto alla difesa c’è, per forza, perché la gente osserva e le fazioni si creano. Ma sono uno su un milione. Per tutti gli altri, l’unica soluzione è tentare di tirarsi fuori il prima possibile, evitando di infilarsi negli ingranaggi diabolici della macchina giustizialista. Per cui, molta parte dei patteggiamenti, richieste di riti alternativi, o accettazione passiva di decreti penali di condanna, non è da intendersi come ammissione di colpevolezza (certo, a volte lo è, chi viene preso con le mani nella marmellata ha poco da discutere), ma come rinuncia al diritto alla difesa, per l’impossibilità concreta di usufruirne.

Ho dedicato al diritto alla difesa un capitolo del mio ultimo libro, La grande ammucchiata.

Elisa Rolfo

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